domenica 3 luglio 2016

Il Tonglen a modo mio

Vorrei condividere con voi la mia esperienza da autodidatta con la meditazione tibetana, in particolare con la pratica del Tonglen.

Come molte scoperte della mia vita anche questa è iniziata con un libro. In questo caso si tratta di Excavating Pema Ozer, un piacevole romanzo di formazione, ben documentato, scritto da una insegnante di Dharma di tradizione tibetana. La sua lettura mi ha aiutato ad avvicinarmi al mondo del buddismo tibetano con occhi diversi.

Quello che mi ha sempre tenuto lontano dallo sperimentare lo stile tibetano, variopinto e multiforme, è stata la mia formazione nell'austera scuola dello Zen Soto, ma i tempi erano maturi per cercare nuove strade. Innanzitutto sono partito dalla consapevolezza che non sono in grado di dedicare alla meditazione seduta (Shikantaza) l'energia e la costanza di cui ha bisogno per essere efficace, ma non per questo voglio rinunciare a percorrere la strada tracciata dal Buddha.

Provo a spiegare, con parole mie, ciò che ho capito capito del Tonglen (lett. dare e ricevere), la meditazione di compassione tibetana. Chiedo anticipatamente scusa ai più esperti di questa tradizione per gli inevitabili errori, tutto ciò di cui ragiono ora l'ho scoperto da autodidatta, senza alcuna guida, e il mio scopo è proprio mostrare cosa sono riuscito ad imparare da una tradizione diversa dalla mia e a fare proprio.

La prima fase della meditazione consiste nel visualizzare con il maggior dettaglio tutti coloro che ci causano repulsione, sofferenza ed ogni reazione negativa. Questo per me è la fase più difficile, essendo abituato al "lasciare andare" dello Zen, ma è utile per andare diritto al cuore della sofferenza, qui ed ora. Quando non riesco a fissarmi su una o più persone mi immagino delle forme astratte, spesso una gabbia nera e spessa, che mi avvolge e mi soffoca.